Una passeggiata fuori dai luoghi comuni.

Decidere di restare a Roma nel periodo delle festività natalizie è stata per me una grande opportunità, non solo per riabbracciare parenti e amici che non vedevo da tanto tempo, ma soprattutto per fare alcune cose che durante l’anno ho dovuto rimandare per via dei troppi impegni.

Una su tutte è stata ritornare in un luogo molto particolare dove ero capitato la scorsa estate per caso e di sfuggita: l’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà, in zona Montemario.

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Forse alcuni di voi si stanno domandando cosa mi avesse portato lì già la prima volta. Semplice, a Piazza Santa Maria della Pietà si trova la ASL canina dove quella mattina di luglio avevo appuntamento per ritirare il passaporto del mio amico a quattro zampe. Potete immaginare quindi il mio stupore quando, nell’attesa del nostro turno, ho scoperto di trovarmi nel più grande e importante ex manicomio d’Europa!

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Alla scoperta della “città dei matti e degli artisti”.

Per molto tempo l’ospedale psichiatrico “Santa Maria della Pietà” è stato definito “città dei matti”. Una vera e propria città nella città, con 130 ettari e ben 41 padiglioni immersi in un grande parco, costruita per “ospitare” al suo interno tutte le persone considerate “pazze”, che soffrivano di disagi mentali o di problemi psicologici di varia natura, a cui erano destinati trattamenti aberranti, come l’elettroshock, le camicie di forza e la lobotomia.

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Un immenso luogo di segregazione umana, molto più simile a un lager che a un centro di cura, dove uomini e donne venivano privati di tutto, internati, umiliati, sedati e nascosti agli occhi dell’altra società, quella che viveva all’esterno.     

Decidere di ritornare in questo luogo non è stato né semplice, né immediato.

Ho dovuto prima documentarmi ed entrare dentro una realtà che nessuno ama guardare e ricordare.

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Fortunatamente la legge Basaglia del 1979 ha messo fine a queste tristi pagine di sofferenza, anche se l’ospedale psichiatrico è stato definitivamente chiuso solo nel 1999. 

Il mio reportage fotografico parte proprio da quelle pagine di vita strappate, immaginando cosa potesse accadere dietro quelle finestre, da dove provenivano urla e lamenti strazianti. Entrare in uno dei padiglioni è stato come vivere quella sensazione di profondo abbandono sociale di cui parlano i vari articoli su cui mi sono documentato.

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La poesia per uscire dall’inferno.

Difficile immaginare i dolori vissuti in manicomio, perché l’argomento è sempre stato considerato un grandissimo tabù.

Ma non per il cinema, l’arte e la poesia. Ricordo una delle opere cinematografiche più intense e drammatiche su questo tema: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman (tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey pubblicato nel 1962) che al tempo fece molto scalpore, in quanto per la prima volta veniva mostrato e denunciato il trattamento disumano degli ospedali psichiatrici statali.

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Descrivere quell’inferno è impossibile se non lo si è vissuto in prima persona. Solo le parole di chi è riuscito a sopravvivere a questa terribile esperienza, possono restituire il senso di ciò che non ha senso.

Come i bellissimi versi di Alda Merini, ricoverata per ben tre volte in ospedali psichiatrici.

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La poetessa sperimentò sulla propria pelle orribili torture, ma, nonostante ciò, quando uscì dal manicomio, seppe trasformare questo orrore in poesia.

Il dolore della malattia mentale è qualcosa che ti urla dentro e non riesce a uscire. Il dolore che ti avvolge in manicomio a volte è solo un pretesto per una condanna più grande, una calunnia del destino, o forse un castigo di Dio. Sono convinta che dal dolore possa nascere una grande passione per l’Aldilà. Si vorrebbe morire, però al tempo stesso si ha la speranza di vivere. (A. Merini)

Sono tanti i passaggi nei suoi scritti ed interviste in cui la Merini parla della solitudine e del silenzio che si prova in manicomio.

 

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Un silenzio grave ed ingombrante, spezzato, a volte, solo dalle grida penetranti di chi era legato al proprio letto con fascette a polsi e caviglie. (A. Merini)

Un’esperienza dolorosa, spietata, crudele e violenta, convertita in versi carichi di straordinaria spontaneità e intensità:      

La follia è una delle cose più sacre che esistono sulla terra. È un percorso di dolore purificatore, una sofferenza come quintessenza della logica. La follia deve esistere per se stessa, perché i folli vogliono che esista. Noi la chiamiamo follia, altri la definiscono malattia. (A. Merini)

La follia è una scintilla di genialità

Dal 2015 parte del progetto di riqualificazione del complesso “Santa Maria della Pietà” è stata affidata a 28 artisti che hanno trasformato le facciate dei padiglioni abbandonati, i muri e le strutture circostanti in grandi tele che invitano i passanti a riflettere sulla condizione umana e sulle sue molteplici sfaccettature.

Tra esse mi ha molto colpito l’opera di Federico Bibbo “2+2” su cui svetta la frase “La follia è una scintilla di genialità”.

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Questa sua frase mi ha fatto subito pensare ad Alda Merini quando nelle sue interviste parla di matti e genialità:

Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.
Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita. (A. Merini)

Un altro artista che ha catturato la mia attenzione è stato Gomez de Teran che ha coperto tutto il padiglione 6, che ospita il Museo della mente, con un’opera gigantesca chiamata “Le cose che non si vedono” in cui ha rappresentato una serie di figure alienate che guardano il vuoto con terrore e si tappano le orecchie mentre le “voci” che hanno in testa continuano a ossessionarle.

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Un’opera che dà luogo a molteplici interpretazioni personali, creata per far riflette sul tema della diversità e sulla percezione che la società ha sulla follia.

 

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Un’altra opera che merita di essere ammirata da vicino è quella della famosa artista Tina Loiodice con la sua “Bambina Pensante” che con i suoi capelli scomposti, occhioni vivaci e la mano appoggiata sul mento sembra interrogarsi sul futuro che l’aspetta.

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A interrogarsi sulla condizione della donna è anche Violetta Carpino, una giovane artista romana che con l’opera “Ascolto Fetale” punta l’attenzione sul bisogno di ascolto: la sua donna incinta senza volto, ha le braccia spalancate e porta in grembo un orecchio.

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Questo weekend voglio fare cose folli con voi.

Ecco perché ho deciso di portarvi all’ex manicomio di Santa Maria della Pietà.

Un luogo che non parla solo di sofferenza e di malattia, ma anche di speranza, creatività e rinascita.

Se siete interessati a scoprirlo e andare oltre i luoghi comuni vi invito a visitare i miei canali Instagram e Facebook dove metterò in condivisione tutti gli scatti realizzati durante la mia passeggiata.

Siate un po’ pazzi anche voi. Oggi è FRAday!  

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